MARCELLINO DEL FIUME
Marcellino del Fiume
di Marcello CorbelliCorrevano i meravigliosi anni sessanta, l’Italia era in pieno boom economico ed il miraggio di un lavoro in fabbrica, aveva convinto mio padre a lasciare la mezzadria per trasferirsi nel paesello, dove lo aspettava un futuro come falegname tornitore.
Il suo era uno stipendio da operaio, non era molto, ma gli permetteva di mantenere con orgoglioso decoro la sua famiglia. Nel nostro appartamento davanti alla stazione di Castellina Scalo mancava solo il superfluo, c’era anche il “gabinetto in casa”, non avevamo ancora la televisione, ma io vivace ragazzino di sei anni, potevo comunque guardare un paio di volte alla settimana la “TV dei ragazzi” in casa di Adriana, una nostra gentile vicina la quale, oltre ad invitarmi a vedere il mitico Topo Gigio, mi dava anche qualche biscotto di quelli buoni, che potevo pescare da dentro una variopinta scatola di latta. Una mezz’oretta di sogni vissuti con l’incanto di bambino e poi di corsa in casa a fare, come le chiamava la nonna Caterina, “le cose di scuola”.
La scuola elementare era a poche decine di metri dalla mia abitazione, allora non c’erano pericoli per la strada, ma Giulia, la bidella, controllava ugualmente con molta attenzione che i “suoi cittini” entrassero tutti dentro il cancello.
Le aule in inverno erano riscaldate con stufe a legna in ghisa e noi ragazzi durante l’ora della ricreazione, per profumare l’aria, mettevamo sopra la piastra incalorita le bucce degli aranci e dei mandarini che avevamo mangiato per colazione.
Nel paesino di campagna la vita scorreva lenta, ma le nostre giornate erano comunque sempre stracolme di vita spumeggiante, le strade sterrate ed i campi incolti erano il nostro regno, tutto l’oro del mondo era nascosto in quei luoghi, bastava solo saperlo cercare.
Eravamo fortunati e non lo sapevamo; niente di artificiale si era ancora sostituito alla nostra fantasia, i preziosi sogni di bambino erano solo nostri, potevamo essere tutto quello che volevamo: ogni scopa era un destriero sbuffante, ogni tappino era un bolide da far correre a suon di “pillotti” sui bordi in marmo dei marciapiedi e un cappello di carta poteva trasformarti subito nel più veloce pistolero dell’west.
I ritmi della vita quotidiana erano scanditi dalle campane della chiesa e dal passaggio del treno a vapore. Nell’ora della merenda le nostre mamme ci chiamavano dalle finestre che davano sulla strada e noi tutti, rigorosamente dotati di una fetta di pane condita con olio e sale o con vino e zucchero, tornavamo ai nostri giuochi.
Il gelato costava venti lire, quello piccolo, trenta quello più grande, da prendere solo la domenica pomeriggio. Topolino costava 120 lire e potevo scegliere se comprare il gelato o comprare il “giornalino”, tutti e due non era possibile averli e guai ad insistere perché: “L’erba voglio non nasce nemmeno nel giardino del re” e se andava meno bene, c’era anche lo scapaccione…..ovviamente a puro scopo educativo.
La mia fanciullezza e la mia adolescenza si sono formate in questo meraviglioso contesto, in un paesino di campagna, Castellina Scalo, dove scorre il torrente Staggia e proprio lungo il suo corso mio padre aveva l’orto e nell’orto c’erano le canne di fiume usate per “infrascare i pomodori”; da lì al costruirsi la canna da pesca più bella del mondo, il passaggio fu inevitabilmente breve.
Alcuni metri di filo di nylon srotolati da un grosso rocchetto di legno, un galleggiante di sughero dipinto di rosso e bianco, un pizzicotto di piombini e cinque o sei ami, il tutto comprato rigorosamente sfuso al “Caccia e Pesca Polato”, fu per me l’attrezzatura pionieristica con la quale iniziava la mia storia.
Avevo otto anni, nel sessantasei, quando l’Arno allagò Firenze, nello stesso giorno anche lo Staggia ruppe gli argini e la zona bassa di Castellina Scalo vide il fiume arrivare in paese. Dalla finestra di camera, al primo piano, guardavo l’acqua fangosa giunta quasi alla porta di casa, ma nella mia mente di bambino la sola preoccupazione era rivolta ai pesci del Tombolo dell’Orto, unico sito di pesca consentito, dove mio padre poteva tenermi sott’occhio, i quali con tutta quella corrente sarebbero stati portati chissà dove.
Il tempo trascorreva piano ed io iniziavo ad affinare la tecnica, ma per fare sempre meglio era necessario dotarsi di un’adeguata attrezzatura e così presi il coraggio a due mani e, valutate anche eventuali rinunce che certamente sarebbero state portate al tavolo delle trattative, chiesi ai miei se potevano comprarmi la canna da pesca che avevo visto dietro al banco, nella bottega del Polato. La risposta fu più dura del previsto tanto che, la moneta di scambio richiesta per ottenere quello che volevo, consisteva nella solenne promessa di impegnarmi di più a scuola. Il prezzo da pagare era quasi insopportabile, il sodalizio babbo-mamma si era rivelato davvero devastante, ma la canna era troppo importante e divenne mia: una bellissima tre metri (forse anche un po’ di più) in bambù, con gli innesti in ottone, rifinita con delle legature in filo rosso, un gioiellino che i miei genitori conservano ancora. Ma la sorpresa che solo la sensibilità di un genitore sa azzeccare, venne subito dopo la consegna della tanto agognata canna: insieme a questa, sul tavolo di “casa”, c’era anche una scatola ben incartata che, con mio stupore, fui invitato ad aprire con cura (la carta da regali veniva riutilizzata). Ancora incredulo, soppesai frettolosamente quel pacco per cercare di capire cosa contenesse, era piuttosto leggero in confronto al suo volume, cercando malamente di nascondere la frenesia, iniziai ad aprirlo con le mani che mi tremavano per l’emozione, il cuore mi batteva forte, più cercavo di fare veloce, meno ci riuscivo, cosa poteva esserci li dentro? Ricordo distintamente le sensazioni che mi assalivano come vampate che si intensificavamo ad ogni passaggio.
Tolto l’involucro, apparve una scatola di cartone per le bottiglie dei liquori e dentro c’erano delle pagine di giornale accartocciate volutamente messe per ritardare la sorpresa, le tirai via quasi rabbiosamente, fino a vedere un cestino da pesca in vimini, con il buco sopra il coperchio per farci passare i pesci e con la tracolla in corda intrecciata, esattamente uguale a quello appeso in vetrina dal Polato, lo stesso che guardavo con gli occhi languidi, ogni giorno tornando a casa da scuola. Quello che non avevo osato chiedere era mio. Mi sentivo padrone del mondo. Ora tutti avrebbero potuto vedere che anch’io ero davvero un pescatore. Il turbine di sentimenti che si avvicendavano nella mia mente non passò inosservato e dagli occhi stanchi della nonna Caterina scese una lacrima.
Con il tempo, le mie uscite lungo lo Staggia si facevano sempre più frequenti e dato che avevo imparato a nuotare “a cane”, mio padre, fidandosi un po’ di più, mi permetteva di andare a pesca anche da solo, l’unico mio cruccio era che riuscivo a prendere solo delle “Zaganelle” (qualsiasi tipo di pesce, purché piccolo era una Zaganella), ma il cruccio spariva subito quando facevo vedere il mio cestino con i pesci alla mamma e lei per farmi sentire importante mi sorrideva dicendo: “Questi si che sono pesci buoni. Sentirai che fritturina, di questi non si butta via niente, si mangia anche il capo”.
Il mio cestino……la cassaforte dove sono custoditi i miei ricordi, i ricordi di Marcellino del Fiume. Se chiudo gli occhi sento ancora l’odore inconfondibile del pesce appena pescato, sento ancora il profumo fragrante delle foglie umide con le quali facevo il “letto” ai pesci perché non si sciupassero durante la loro permanenza all’interno del mio cestino.
In quegli anni, le sponde del fiume erano tenute dai frontisti come un vero e proprio giardino e le passeggiate lungo il suo corso erano un piacevole momento di svago per gli anziani del paese e per le mamme con i loro bimbi piccoli e tutti quelli che passavano mi dicevano qualche parola, talvolta scherzosa altre volte meno simpatica, ricordandomi che sarebbe stato meglio se stavo più sui libri e meno sul fiume, certo era che ormai per tutti ero “Marcellino del Fiume” e a me francamente quel nomignolo non dispiaceva affatto. Marcellino stava al fiume come il fiume stava a Marcellino, fino a quando, un brutto giorno, un ragazzo più grande di me di alcuni anni fu trovato morto annegato nel Tombolo dell’Orto. Non ricordo bene tutti i contorni della vicenda, ma ricordo bene che rifiutavo l’idea che lo Staggia, il mio fiume, potesse aver fatto del male a qualcuno.
Da quel giorno sono trascorsi più di quarant’anni e Marcellino del Fiume non ha mai smesso di pescare, la canna in bambù con gli innesti d’ottone e le rifiniture in filo rosso ha lasciato il posto ad un’attrezzatura da svariate migliaia di euro; il galleggiante in sughero rosso e bianco, il filo, i piombi e gli ami, comprati sfusi dal bancone di legno del Polato hanno ceduto il passo a sofisticate confezioni molto più attente alla loro accattivante estetica che non al vero contenuto, ma la vibrante sensazione che un’uscita di pesca sul fiume riesce ancora a provocarmi, quella non potrà mai essere sostituita da nessun’altra, così come nessuno mai potrà rapire i sogni di un bambino che voleva sognare e anche ora che nessuno mi chiama più Marcellino del Fiume, stringo con forza il ricordo dei miei sogni: il profumo dell’erba del fiume, l’odore delle “zaganelle” appena pescate, mia madre che mi sorride…….”Bravo Marcellino….Sentirai che fritturina…questi si che son buoni….Si mangia tutto”; e…………………..dentro di me cresce un’ansia commossa.
Un saluto a tutti gli amici di Matchfishing