LE CANNE DOLCI: L’ARTE POVERA DELLE CANNE DA PESCA
Quello che leggerete, è un viaggio a ritroso nel tempo, un viaggio fra le memorie delle persone e gli scritti apparsi nel secolo scorso sulle riviste dai primi del ‘900 in poi, un viaggio spesso fatto a sbalzi fra una lettura ed un ricordo, in cui i tanti spunti “tecnico costruttivi” vogliono essere principalmente “una pista da annusare” in un vagabondare fra gli odori delle botteghe artigiane e i fiumi dell’epoca dei contadini.
ARUNDO DONAX
Questa storia è quasi una fiaba, tanto che le calza a pennello la favola 25 di Esopo ( 7 sec. a.C. )
La Canna e L’Ulivo
“ La canna e l’ulivo discutevano di resistenza, di forza e di sicurezza, e l’ulivo rinfacciava alla canna di essere debole e di piegarsi a tutti i venti.
La canna a queste critiche non rispondeva.
Un giorno si levò una violenta bufera, e la canna, per quanto scossa e piegata dalle raffiche di vento, ne uscì salva senza difficoltà; mentre l’ulivo, che cercava di resistere ai venti, fu sradicato dalla loro violenza.”
Arundo Donax: nome scientifico della canna comune, o nostrale, come veniva chiamata a Firenze nel 1900 da non confondersi nè con il bambù, ( Bambuseae) da cui si ricavavano si canne da pesca , ma ben più pese, anche se più resistenti, nè con la cannuccia di palude ( Phragmites australis ) che non è adatta allo scopo per la sua fragilità
Oggi parliamo di lei, pianta originaria del Mediterraneo che cresce anche su terreni “poveri” cioè anche su basi molto asciutte, tipo i terreni di galestro.
Questa pianta – che ha uno sviluppo verticale che va dai 6 ai 10 metri con fusti fatti di tratti vuoti intervallati da “nodi: cioè anelli più spessi chiusi anche internamente”, sviluppa un diametro alla base di qualche centimetro ( fino a 3 )
Questa sua struttura, dimensione, e il materiale di cui è composta l’hanno resa una pianta molto utilizzata dall’uomo, vediamone principalmente in cosa:
– E’ utilissima alla produzione della carta, vista la sua alta percentuale di cellulosa
– E’ ottima come biomassa per uso combustibile
– E’un grande alleato per la fitodepurazione da inquinamento, -in quanto assorbe anche metalli pesanti – e non essendo appetita da animali chiude il ciclo inquinante
– E’ materiale di pregio per strumenti musicali a fiato- da lei si ricavano delle ance molto buone
– Nella sua antica storia di rapporto con l’uomo, le sue foglie son state utilizzate dagli antichi Egizi per – fasciare i defunti.
Ma quello che interessa noi pescatori è che nel secolo passato ha avuto un utilizzo di cui si trova scritto troppo poco: per la sua leggerezza e flessibilità, si è prestata ad essere usata per costruire canne da pesca, inizialmente probabilmente in monopezzo, poi in pezzi ad innesto uno dentro l’altro, e successivamente usando per l’inserzione dei pezzi anche delle ghiere di ottone o ferro; canne da pesca realizzate sia a fascio che rientranti nel pezzo di misura superiore ( es.a bastone da passeggio )
La storia di queste canne da pesca( specie la loro storia fiorentina) ha un inizio certo, perchè le canne in canna dolce appaiono nel Catalogo del negozio/grossista T.Morelli sito in via Or S.Michele( anche: Orsanmichele ) n°6 sin dal 1909 ( in foto la copertina di quello del 1914) dove varie tipologie di canne da pesca realizzate con questa pianta appaiono in vendita, sia per tutto il regno italiano che per l’estero!
Dunque, almeno a Firenze questa canna è stata da allora, e probabilmente già da prima, e per lungo tempo, l’attrezzo principale del pescatore che pescava per diletto dalle sponde dell’Arno fiorentino
Ci sono numerosi altri cataloghi di grossisti di tutt’Italia che ne riportano la loro commercializzazione specie dagli anni ‘30 in poi, ma ve li ho già presenatti nell’articolo precedente.
Si trovano descrizioni sulla loro fattura e impiego, nei primi libri sulla pesca in Italia del 1933 sia di Eugenio Barisoni ( La lenza) che di )Angelo Bruni ( edito postumo nel 1934) IL LIBRO PRATICO del pescatore all’amo nelle acque dolci
Il suo boom commerciale in Italia è però avvenuto, nell’immediato dopoguerra, in corrispondenza della più vasta diffusione della pesca sportiva.
Quello che non si trova però scritto nei libri e nei cataloghi ed andrebbe perso se non messo “nero su bianco” è il vissuto degli artigiani e dei commercianti che hanno accompagnato negli anni le canne da pesca in canna dolce, sia costruendo che commerciando questo oggetto.
La prima memoria a cui sono risalito per Firenze è quella di Andrea Londi (1947) titolare dell’omonimo negozio di Caccia &Pesca attivo dal 1923; anche se la pesca entra nel negozio qualche anno dopo rispetto alla caccia, Andrea non ricorda la data precisa, perchè ancora non era nato, ma già nel 1932 il negozio di suo nonno non solo assemblava le canne, le si vedono in foto appoggiate ai lati del portone d’entrata di via Romana, ma serviva anche una rete di negozi rivenditori, come si vede dalla locandina del 1932
Andrea ricorda, da ragazzo di averne viste in negozio di molto vecchie, che venivano definite: montate all’Empolese si trattava però molto probabilmente, di canne di Bambù, con pezzi che entravano l’uno nell’altro e avevano le ghiere che facevano solo da rinforzo esterno, e non da accoppiamento come nelle successive, e data la loro pesantezza difficilmente passavano i 4 mt.
In questa tipologia di canne si ritrovano spesso anche canne da mare e non, miste fra Bambù e nostrale, di cui darò in seguito qualche notizia.
I ricordi che Andrea conserva nella sua memoria non sono solo i suoi, ma anche quelli del nonno paterno: Raffaello Londi, e del babbo: Renzo Londi; i suoi personali risalgono agli anni 60/61 quando lui appena 14 enne prese a lavorare nel negozio di famiglia; è di quel battesimo che Andrea mi racconta un aneddoto:
-” terminate le medie entrai in negozio dal babbo, che per settimane mi mise ad addirizzare alla fiamma qualche centinaio di pezzi di canna dolce e a lavoro finito controllandone uno e trovandolo ottimamente raddrizzato, con mia sorpresa mi disse che li potevo gettare tutti…erano in realtà pezzi di scarto che a mia insaputa erano serviti solo a farmi prendere la mano!!”
Già a 16 anni, aggiunge, mi ero costruito una 8 metri molto bella per arrivare a pescare i barbi sulla corrente che si creava a valle di una pigna del Ponte alla Carraia.
Andrea mi racconta però anche aneddoti del nonno, di quando lui non era ancora nato, od era comunque in fascie:
-”Siamo nel primo dopoguerra circa 46/47 e l’Arduino Pecchioli uno dei primi costruttori artigiani di canne , oltre che quello unimamente riconosciuto come il migliore a Firenze, come quasi tutti all’epoca, cerca di sbarcare il lunario; lui lo fa appunto costruendo canne da pesca; costruisce una canna alla volta che poi prende su e va a vendere in Arno direttamente ai pescatori che trova sulla riva…venduta una va a costruirne un’altra.
E’ in una di queste occasioni che il nonno di Andrea: Raffaello, lo incontra e dopo aver constatato l’alta qualità artigianale dell’articolo, si propone come rivenditore autorizzato presso il suo negozio che era attivo appunto sin dal 1923 in Firenze, all’epoca in via Romana n°21
Il commercio e di conseguenza la lavorazione di queste canne prese largo piede proprio in quegli anni, anni in cui si moltiplicarono gli artigiani che si cimentarono con quegli attrezzi, Arduino Pecchioli classe 1918/20(Via delle Riffe 13 r) – Mariano ( Via A.Del Sarto n°5r) Pieroni ( Via Celso n°11 r P.za Giorgini)
Di lui Andrea mi racconta: Il Pieroni prima dell’alluvione aveva messo su una “macchina” per addrizzare le canne; che spesso trattate manualmente se erano di 6 o 7 metri riciedevano diverse ore di lavoro: erano dei tubi di ottone aperti in cui metteva dentro i pezzi delle canne, poi li stringeva con delle fascette e li passava sul fuoco, in quel modo la canna interna investita dal calore e pressata dentro il tubo alla riapertura ne risultava addirizzata, era un modo pratico per velocizzare le operazioni.
Un’altro artigiano molto conosciuto era Adriano Campatelli classe ‘35(che dopo essere stato ragazzo da Arduino, aprì una sua attività in Via Bronzino, divenendo in breve quasi un piccolo industriale vista la grande quantità di buone canne prodotte ) anche lui mi racconta il figlio Marco Campatelli classe ‘57 usava a fine anni ‘60 andare sul fiume Arno in Firenze, con le vette di ricambio e magari anche le esche, formicoloni-mignatte- anche i bachi (all’epoca si rifornivano tutti ai macelli in via Circondaria) a vendere direttamente il prodotto ai pescatori che magari stavano svolgendo una gara.
Altri artigiani li ho rilevati da una foto presa dal web dell’agonista ex presidente della Soc. Bellariva (Brogi Borge) sulla foto delle sue canne si legge: Giorgetti ( presso via Pisana) – Spadi- e chissà quanti altri; tanto che il Londi in negozio, oltre quelle che in seguito iniziò ad assemblare in proprio, con pezzi che gli arrivavano già stagionati, teneva le canne di alcuni di questi artigiani come usa ora tenere i marchi moderni più blasonati: Daiwa-Colmic-Milo-Tubertini etc.
Ogni artigiano usava marcare le proprie canne sul calcio con un timbro a fuoco, inizialmente veniva impresso il cognome, con il passare degli anni si arrivò ad imprimere anche un nome del modello, e l’indirizzo del fabbricante , in modo che la canna fosse anche un veicolo pubblicitario.
TECNICA COSTRUTTIVA: DALLA SCELTA ALL’ASSEMBLAGGIO
La costruzione di queste canne da pesca necessitava di tanta esperienza che iniziava dal conoscere bene la canna comune, i suoi pregi e i suoi difetti, il terreno su cui era cresciuta e anche di come si erano susseguite le ultime stagioni, particolare rilevabile dalla distanza che avevano fra di loro i nodi presenti sul fusto della canna, ad esempio: a fronte di inverni lunghi e rigidi il fusto della canna cresceva meno fra nodo e nodo, facendo si che fra essi vi fosse minore distanza e quindi più rigidità-resistenza, idem se questa cresceva su terreni molto asciutti.
Questa distanza fra i nodi, oltre il buon spessore interno della canna (importante anche per la sua durata nel tempo) era un punto cruciale, perchè osservandola si intuiva quanta resistenza e flessibilità potesse avere il pezzo che si andava a tagliare, il principio era “semplice”: più i nodi erano ravvicinati più il pezzo era resistente alla flessione, più erano distanti e più il tratto diveniva flessibile, tanto che negi anni ‘50 si usava anche dividere fra loro le due tipologie di canne chiamando “femminili” quelle a nodi distanti e perciò oltremodo pieghevoli e “mascoline” quelle a nodi più ravvicinati e perciò più rigide, sempre in linea generale però, perchè ogni tratto di canna partendo dalla vetta fino al pedone a scelta completata avrebbe dovuto avere distanze fra i nodi differenti, più marcate dove era nessaria una buona flessibilità, più contenute dove la medesima non era determinante, ma si richiedeva resistenza e solidità.
Le sfumature , come vedremo, erano veramente tante e determinavano la qualità finale della canna, perchè questa flessibilità resistenza elasticità che gli si richiedeva doveva avere poi un risultato omogeneo fra pezzo e pezzo perchè le canne non erano ovviamente in pezzo unico, cosa che sarebbe stata oltremodo scomoda al loro trasporto.
Ma entriamo nel dettaglio dei vari pezzi:
VETTA
Particolare cura veniva riservata alla scelta della vetta, chiamata anche: cimino, vettino, o puntina* o anche pollone* ( *anni ‘30)
Questo particolare era determinante, perchè era il pezzo che più si rompeva essendo quello che sopportava il carico del peso del pesce durante il salpaggio; si leggono molte cose relative alla vetta c’è chi dava molta importanza alla sua provenienza, ad esempio I Londi le facevano arrivare (già stagionate) da Sarzana (zona Magra), un altro esempio ci viene da Montelupo e dai ricordi del nonno dell’amico Jacopo: nonno Benedetti (1928) che ricorda di un artigiano chiamato “i Mone” dal nome -Simone, (del 1912 ) che negli anni ‘50 sceglieva le vette per le canne dolci, tagliando i “ributti” cioè le ricrescite al piede delle ceppe, sostenendo che i medesimi erano quelli più pieni e resistenti.
Ma chi faceva scuola, ed ha fatto storia a Firenze era il Pecchioli Arduino e le sue famose vette “sopranni” che avessero cioè almeno 3 inverni sulla pianta, scegliendo quelle che erano cresciute su terreno di galestro, perchè le piante nate vicino a terreni troppo paludosi ne fornivano di troppo morbide; e controllando anche che vi fossero anelli ravvicinati a 10 cm dalla sommità della vetta. Sicuramente i “segreti” fra artigiani erano molti, penso ad esempio al momento in cui si doveva effettuare il taglio, ad esempio Arduino procedeva da Febbraio fino a Marzo, quando insieme al Babbo del Mannucci e a Piero stesso ( dall’articolo del R. Picchienti)
In altri luoghi ed altri artigiani invece operavano il taglio ad esempio alla prima Luna piena di Gennaio.
I PEZZI INTERMEDI
I pezzi intermedi il sottovetta e il successivo erano (come oggi) dei “trasmissori” cioè pezzi impegnati in modo comunque severo sia nell’azione di flessione che in quella di scarico delle tensioni al pezzo successivo; su questo tratto di canna son sicuro che si esaltassero le capacità tecniche del costruttore, perchè cogliere questo rapporto fra pezzi diversi di una cosa “viva” doveva essere realmente un dono, frutto ovviamente anche della tanta esperienza, e anche di alcuni principi base, ad esempio il rapporto fra la circonferenza del nodo e la sua distanza dal nodo successivo, di cui accennerò in seguito.
I pezzi intermedi come raccontava il Negoziante Piero Mannucci ( Caccia &pesca di Via Aretina -Firenze) in un bellissimo articolo apparso sul mensile di pesca (Pesca In Agosto 1999 ) a firma di Roberto Picchianti (eclettico scrittore artista del 1935, che colgo l’occasione per ringraziare della bella chiacchierata a casa sua a Firenze); andavano scelti con i nodi che avessero una discreta distanza via via che si andava verso i pezzi più grossi, perchè questo ne esaltava una elasticità progressiva.
Il CALCIO O PEDONE
Anche il calcio era uno dei pezzi che necessitava di una ricerca accurata per sceglierne dei migliori, mi raccontava l’amico Giuliano Calamai (1940) che era stato negli anini ‘90 mio maestro di pesca, che quando costruiva e vendeva lui le canne di canna dolce i calci li prendeva nel grossetano perchè lì crescevano i migliori. Il Londi invece a fronte di un forte aumento della richiesta delle sue canne si fece arrivare via treno dalla Sicilia (perchè laggiù crescevano particolarmente lunghi e diritti) addirittura un intero vagone ferroviario di calci, lunghi anche 6 mt. l’uno!
Dai resti dei segmenti tagliati del calcio spesso si ricavavano i contenitori per i formicoloni o le vespe o altre esche. Di questi contenitori tappati con un sughero ho dei ricordi nitidi perchè a 10/12 anni ero solito a Dicembre raccogliere i formicoloni in tenuta nunziale,( I maschi e la Regina divenivano alati) prima che sciamassero dai peri secchi che erano nei miei campi dell’Oltrarno sotto casa mia, per poi andare a rivenderli ai Caccia&Pesca della zona, ( es. Il Cenni) si perchè all’epoca( dal 1966 al 70) nel rione potevi avere anche 3-4 negozi; mi ricordo anche il prezzo che spuntavo si andava dalle 2 alle 3 lire l’uno e dovevano obbligatoriamente non avere perso le ali,( cosa che accadeva spesso dentro il contenitore) era così, che io e l’amico Giani Claudio che da grande sarebbe divenuto l’amministratore delegato della C.O.L.M.I.C. con il ricavato si andava per Natale al cinema di rione (Marconi) e se “I raccolti” erano stati buoni ci rientravano alla grande anche le libagioni: Gazosa e Lupini!
STAGIONATURA
Ma andiamo per gradi…fatte le scelte delle canne idonee da cui tagliare i vari segmenti, c’era la stagionatura che in alcuni casi, e a scelta del costruttore, poteva protrarsi anche per 2 anni, si appendevano le lunghe canne in capannoni areati e asciutti, ma privi di luce, punta in alto e calcio in basso perchè una volta stagionate risultassero il più dritte possibile, era importante comprendere quando il pezzo era pronto e lo si valutava dalla colorazione che assumeva dopo un lungo periodo.
La canna che nel frattempo perdeva la totalità dell’acqua di cui era composta, rimaneva però di un colore verdognolo spento, e solo successivamente messa a contatto per del tempo con la luce del sole prendeva il definitivo e più accattivante colore giallastro tipico della canna stagionata come lo conosciamo tutti.
ASSEMBLAGGIO
E’ quì che entra in campo a pieno titolo Andrea Londi che almeno a Firenze è forse l’unico erede rimasto di queste memorie:
I pezzi di canna stagionata, che venivano scelti per assemblare la canna andavano rifiniti, bisognava porre però molta attenzione ai nodi, in genere sul punto di stacco del rametto che ne fuoriusciva, rimaneva una pellolina che spesso una volta seccata risultava fastidiosa perchè ci si impigliava la lenza, ma era bene non rasarla troppo, anzi era importante coprirla bene nella fase di verniciatura, perchè se la asportavi troppo da li era altamente probabile che l’acqua, ma anche solo l’umidità riuscisse a penetrare dentro al fusto e provocare le noiose piegature della canna.
LE GHIERE DI OTTONE (e non solo di ottone perchè ne esistevano anche di ferro)
Una volta tagliati i vari pezzi ci si incastrava ad ognuno la sua ghiera conica di ottone, all’epoca i fogli di Ottone dei vari spessori necessari per la loro costruzione erano facilmente reperibili dagli “stagnini” gli anni ‘60 furono anni di notevole impulso nella ricostruzione, gli anni degli artigiani in tutti i settori, perciò i materiali si trovavano bene; anche se le ghiere per la pesca erano presenti da tanto, negli anni ‘30 prendevano il nome di Vera o Veretta.
Le ghiere venivano preparate sui cavalieri (coni di ferro di dimensioni via via adatte alla misura richiesta) , dove le si avvolgeva a mano ruotandole sul palmo.
Una volta posizionata la ghiera sul pezzo, si addirizzava il pezzo a fiamma (vedremo poi come) in modo che risultasse in asse con la ghiera, ed infine la si saldava a stagno più acido muriatico -che serviva per aumentare la scorrevolezza dello stagno – questo direttamente sul pezzo; una volta fatto questo passaggio con la lima si ripuliva la saldatura che se era fatta ad arte non presentava che un rigo chiaro finissimo (quasi invisibile) di stagno.
La ghiera generalmente era incollata alla canna usando la pece; se ne smontate ne vedrete ben evidente con il suo colore nero rimasto appiccicato sia alla canna che alla ghiera, in figura come risulta una vecchia canna una volta tolta la ghiera, la pece è stata quasi tutta già ripulita.
GLI STRUMENTI
La saldatrice per saldare le ghiere aveva una punta di rame battuto piegata e fatta a scalpello, veniva portata ad incandescenza sui carboni nella “tramoggia”e poiripulita fra una saldatura e l’altra sul solco di una pietra sempre in presenza di acido muriatico, che aveva il compito di toglierne le impurità.
Mentre ascolto Andrea raccontare mi scappa una domanda improvvisa:
Andrea ma perchè venivano chiamate “canne dolci”?
Andrea mi risponde immediatamente: “perchè erano “dolci da lavorare” visto la loro alta componente di cellulosa, una volta esposte anche brevemente alla fiamma divenivano morbide e perciò modellabili!”
MESSA IN LINEA
Infatti, prosegue, una volta montate tutte le ghiere si montava la canna e poi si passano a fiamma i vari pezzi per addrizzarne la direzione, ma serviva una fiamma adatta…vedi Zaccaria se esponevi la canna ad una fiamma che generava fumo, come ad esempio a quella di una candela, facevi il danno, perchè la canna si macchiava di nero e se eri stato troppo vicino, perchè comunque il fumo non ti dava l’esatta distanza dalla fiamma viva risultava spesso anche danneggiata; l’unica fiamma buona era quella dello spirito, e per quella si aveva un’ampolla di vetro apposita con il suo stoppino, la fiamma dello spirito risultava del calore adeguato, bella azzurrina e priva di fumo. Una volta in linea si segnavano le posizioni dei pezzi contrassegnando con una limetta la ghiera e con una puntina di ferro scaldata si contrassegnava la canna dolce alla sua corrispondenza, così per montarle bastava allineare i due riferimenti.
In foto I4 danni che può provocare una fiamma con fumo. In foto 15 la boccia con la giusta fiamma, e le varie operazioni di addrizzatura
Un’altra operazione importante era quella che prevedeva con un’asta di ferro adeguatamente lunga, la foratura interna dei nodi del calcio, questa operazione andava eseguita a freddo, mai con un ferro incandescente che avrebbe potuto creare con le sue temperature delle dilatazioni pericolose e delle fenditure sul fusto esterno. Le forature erano eseguite per poter inserire almeno una vetta di ricambio dentro al calcio, vista la possibilità non remota di romperne in pesca, la vetta di ricambio era importante. Alcune tipologie di canne erano poi costruite con tutti pezzi entranti l’uno dentro l’altro perciò venivano forati gli interni di tutti i pezzi, in genere erano canne corte non oltre i 4 mt. La soluzione fu ripresa negli anni finali per la costruzione di quelle da alborella.
VERNICIATURA
Una volta terminate e verniciate con coppale,(floating da marina) o comunque vernice alla cellulosa, le canne avevano però bisogno di una manutenzione almeno annuale, perchè con l’umidità, il gelo, la pioggia, il sole, i tuffi in acqua che accadevano in pesca, le facevano prendere pieghe che ne rovinavano prima l’azione e poi ne minavano con probabili successive crepe, proprio l’integrità!
Le canne a fine stagione andavano riposte appese, dopo averle cosparse di grasso di sego che ne preservava impermeabilità ed elasticità, ma prima andavano legati i pezzi fra loro, e anche questo aveva un suo rituale, innanzitutto si usava un grosso spago a cui si facevano 3 giri contrapposti per parte, in modo che si formasse una serie di avvolgimenti e poi si tirava a strozzo senza nodi, in alternativa venivano bene anche anelli ELASTICI ritagliati dalle camere d’aria delle bicilette, ma quelle rosse di una volta che erano in caucciù, o comunque in lattice che sono entrambi polimeri naturali, mai usare quelle più moderne al butile che essendo composto chimico finisce con il tempo per danneggiare la canna.
Nei due libri degli anni ‘30 viene riportato un consiglio perchè le canne dolci resistino più nel tempo agli attacchi atmosferici e agli sforzi di pesca: dopo aver verniciato la canna, consigliavano di eseguire delle legature fra nodo e nodo, anche più di una, e poi verniciarle a più riprese fino ad essere sicuri che lo spessore creato le proteggesse per del tempo, queste se ben strette rappresentavano degli ulteriori “nodi” che irrobustivano la canna senza accrescerne granchè il peso, evitando il pericolo maggiore: le fenditure verticali fra nodo e nodo quando fra i due ci fosse stata una distanza eccessiva; erano accorgimenti sicuramente dedicati a sotto vetta e pezzo inferiore successivo, che dovevano avere appunto (per creare elasticità ) una distanza importante fra nodo e nodo; a Firenze mi conferma Andrea che questa operazione non era eseguita, ma la si dedicava solo ai pezzi che presentassero fenditure, cioè in fase di riparazione, cosa oltremodo sconsigliata se non per pronto intervento, perchè le canne erano comunque già “fragili” da integre figurarsi da danneggiate, e poi comunque queste operazioni andavano a modificarne in qualche modo l’azione.
La riparazione di quelle canne che presentavano nel tempo inizi di fratture verticali, e visibile anche in alcune canne in mio possesso, (visto che ora non si trovano certo i pezzi nuovi…) che ho riparato insieme all’instancabile opera sia di Andrea Londi che dell’amico Massimo Gigli ( classe 46).
Si inseriva dentro un pezzo di canna di misura e conicità compatibile, probabilmente anche con un pò di colla da legno poi si facevano delle legature esterne ben serrate e si coppalavano.
Sulla rivista di pesca ( Il tempo di Pesca di aprile 1953) si spiega come eseguire anche una riparazione di “pronto soccorso” sul fiume: come da figura con tagli contrapposti a becco di flauto e pezzo interno, più legatura, riparazione da rifinire a casa con pece e verniciatura. (Tempo di Pesca 30 Novembre 1952 Renzo Lazzeri-Pistoia)
Ci fu un periodo, mi racconta Andrea in cui venne di moda costruire canne da 6 mt. In 4 pezzi ( partendo dal vettino si facevano di 1+1+2+2 mt.) con così pochi pezzi, e perciò meno ghiere di ottone alle giunture, si ottenevano canne più leggere.
Questo modo di assemblare le canne aveva probabilmente poche differenze con quello che veniva praticato già nei primi decenni del ‘900 se si vuole si può notare come le canne a catalogo Morelli avessero dei “Fusarelli” chiamati negli anni ‘30( catalogo Spem) “Tenoni” o (catalogo Sigismondi) “Tenoncini” ( ora li definiremmo Spigot) per le giunzioni che rendessero l’innesto ancora più solido. Non mancarono in quei primi anni l’utilizzo delle ghiere anche come rinforzo alla base dei pezzi entranti, ne altre soluzioni in cui al posto delle ghiere ( ottone o ferro che fossero) vennero usate delle lunghe e forti legature esterne con la soluzione del pezzo più fine direttamente entrante nel sottostante, come erano ad esempio le Vigo-Pao dei bolognesi.
ALTRE NOTE DALLA RIVISTE
Nelle pagine della rivista Il Tempo di Pesca dell’Aprile del 1953 ( a firma “Orazio”) si leggono altri spunti, es: che le ghiere dovevano essere belle lunghe per preservare la solidità degli innesti, ma non spiega le proporzioni fra diametro e lunghezza delle medesime, e che andavano ovviamente tenute pulite, scrive che si operava con tamponi umidi di benzina anche dentro e possibilmente durante il trasporto andavano tappate per non farci entrare lo sporco.
“Quando i pezzi si bloccano”, continua l’articolo, “non vanno messi in torsione ma vanno tirati in linea per non rischiare l’integrità della canna”, segue la descrizione su come operare: “prima si mette due gocce di olio da macchine da cucire ( olio molto fine) e si lascia riposare, poi si esegue con l’aiuto di un compagno una trazione in asse, è sconsigliano comunque mettere come abitudine olio nelle congiunzioni perchè alla lunga impastano e rendono difficile lo sbloccaggio”.
Il Londi racconta che si cospargevano gli innesti con la “sugna” ( cotenna del maiale) o in alternativa con la cera delle candele.
Andrea Londi in una delle mie tante incursioni nel suo laboratorio, mi ha anche fatto visivamente vedere quale era il procedimento che veniva usato per raddrizzare il vettino e i pezzi sottostanti più leggeri, operando con i giusti tempi, il giusto calore e pressione sia sui nodi, che sulle porzioni intermedie poggiando la canna su di un piccolo ceppo di legno, che alla sua epoca era pìù generoso e con una curvatura a schiena d’asino importante perchè spesso necessitava lavorare anche le sezioni maggiori della canna.
LE CANNE DA PESCA IN ALTRE PROVINCIE E REGIONI
PUGLIA
Puglia si era soliti costruire canne in 3 pezzi costituite da una vetta in bambù una parte centrale in canna nostrale e calcio di nuovo in bambù! ( da un’articolo della rivista Pescare Ottobre 1980) a firma Trizio, gentilmente inviatomi dall’amico Monari.
In quell’articolo si descrive così il modus operandi in Puglia memoria storica di un’artigiano dal nome Mimì detto “Il Biscegliese” perchè era di Bisceglie.
Il taglio delle canne ( bambù o canna dolce non è specificato) andava fatto in corrispondenza della prima luna piena di Gennaio, sembra questa scelta fosse molto importante per le vette di bambù, il pezzo di canna dolce doveva avere una caratteristica che si riscontrava purtroppo in 1 canna su 100…doveva avere una sezione circolare, più questa si avvicinava alla circolarità, più la canna era considerata “mascolina” cioè resistente.
La stagionatura avveniva a canna tagliata ma non completamente sfrondata delle diramazioni ai nodi, anzi alla cima venivano lasciati anche i rametti con le foglie. Il tempo era calcolato in circa 7 mesi, il giusto tempo necessario secondo il “bisceglie” per far perdere l’acqua alla canna, il tutto in un posto asciutto, ben areato ma in assoluta assenza di luce. Avvenuto questo si metteva per qualche tempo, forse un mese, la canna all’esposizione solare per farle prendere ( come ho già scritto) l’accattivante color oro.
Sull’articolo di Pasquale Trizio apparso come detto sulla rivista Pescare del 1980 ,che ne racconta la sua costruzione in Puglia, si evidenziano alcuni accorgimenti tecnici per la scelta della canna dolce( e probabilmente anche del Banbù) da usare per costruire l’attrezzo da pesca, come l’attenzione fra il rapporto del suo diametro al nodo con la distanza del medesimo dal nodo superiore: venivano buone canne che avessero i nodi intervallati di 5 o 7 volte il diametro del nodo inferiore, stiamo comunque parlando in questo caso di canne al massimo di 4 mt. e adibite alla pesca in mare
Al contrario, sempre dall’articolo di Pescare 1980 si legge che quelle miste con il bambù per uso marino, avevano queste proporzioni: vetta di bambù da 2mt – centrale di canna dolce da 80 cm e calcio di bambù di 1,20 mt.( circa)
LE CANNE A BOLOGNA
Il mio “gancio” per le canne costruite a Bologna non poteva che essere Roberto Generali , vista la sua competenza, così in un breve scambio di messaggi Roberto mi scrive:
A Bologna negli anni ‘60 le canne dolci vengono costruite da Paolucci Gianfranco nello scantinato del suo negozio di Caccia & Pesca di via Zambeccari al quale mini-locale si accedeva da una piccola botola sul pavimento attraverso la quale si scendeva tramite dei pioli in ferro murati in parete. Quelle canne venivano costruite un misure da 1 a 7 metri rigorosamente in “canna dolce” con vettino in midollo di bambù, le realizzava svuotando tutti pezzi in modo che il più piccolo entrasse nel più grande.
Roberto Generali(26-03-1944) da cui provengono queste note di oltre Appennino, possedeva la 3 e la 5 metri, la 6 e la 7 le riteneva troppo impegnative anche per la loro continua manutenzione, perchè ovviamente si imbarcavano durante l’uso invernale.
In quegli anni Paolucci aveva per socio il Vigarani campione del mondo di pesca al colpo dell’epoca, tanto che le canne erano firmate Vig-Pao
Da una veloce ricerca e tanto per fare il punto vi nomino alcuni costruttori di canne da pesca in Arundo del nostro paese:
Viga-Pao a Bologna
Albertazzi a Piacenza
Fusi a Milano
IL TRASPORTO
Per trasportare queste canne da pesca, che al calcio potevano tranquillamente passare il 1,50 mt. Specie nelle prime piccole utilitarie dell’epoca, spesso i pescatori usavano riporre sul portabagagli del tetto della macchina a cui erano fissati degli stracci per proteggerle, da quelli stracci sul portabagagli riconoscevi se la macchina apparteneva ad un pescatore.(ricordi di Roberto Picchianti)
LA FINE DI UN’ERA
La tragedia dell’alluvione, e la fine della “canna democratica”
A Firenze il tramonto delle canne dolci ebbe una data precisa: 4- Novembre 1966 l’alluvione dell’acqua dell’Arno che interessò tutta Firenze con punte anche sopra i 4 metri dal piano stradale, allagò sia abitazioni private che laboratori, negozi e pure molti magazzini di grossisti; Andrea si ricorda che erano attivi all’epoca il FAINI in P.za Mentana e il BUZZUTTI ( che però si faceva chiamare BUZZETTI – da tutti ed era presente con quel cognome anche sulle pubblicità nelle riviste, non sapremo mai perchè…) che aveva il deposito presso P.za Beccaria e la cui figlia avrebbe poi negli anni dopo la sua morte creato l’azienda FLOREN PESCA., insomma molte canne galleggiando finirono per essere portate via, macerate dall’acqua del fiume, e anche quelle rimaste sepolte sotto melma e fanghi in cui erano presenti nafta, benzina e oli, andarono tutte perse; così le nuove canne telescoscopiche in fibra di vetro vuota (Colonon materiale vuoto chiamato anche Fibra-gras) che avevano già visto le prime luci nel 1964/65 le sostituirono nell’arco di una breve manciata di anni, in virtù delle loro maggiori performance: più praticità di impiego, facilità di trasporto, e minor manutenzione, ma anche un maggior peso. Per avere il quadro completo va ricordato che dal 1900 ai primi anni ‘60 insieme al bambù nero e bianco e alle più disparate tipologie di canna dolce di varie provenienza: Nostrale di Nizza etc. figurarono in commercio anche canne di acciaio, ne apparvero anche di esagonali lunghe 2 mt. Adatte alla pesca del Luccio e canne di alluminio con i pezzi rientranti e la vetta di bambù adatte al trasporto.
Solo successivamente fine anni 60 inizi 70 le canne dolci ritrovarono un pò di verve nel loro utilizzo come canne per alborelle, provviste in questo frangente di un vettino in “midollo di Bambù” dalle caratteristiche uniche per quella pesca che lo faceva preferire al vettino in fibra di vetro piena e successivamente anche a quello in carbonio che avevano: la meccanica ballonzolante il primo e tendente a rientrare troppo veloce in posizione dritta il secondo, cose che in entrambi i casi accentuavano il rischio slamatura del pesce preso all’amo.
Nelle foto si vede il quadrello di ferro con scanalatura conica e un vettino in midollo di bambù (Londi officina) su cui la striscia di bambù stagionata e già tagliata meccanicamente veniva poi rastremata a misura, conservando una sensibilità ed una meccanica che non la faceva nè “fremere” nè tendere a rientrare in modo deciso dalla piega finchè vi era applicato il peso del pesce.
Probabilmente vi chiederete perchè tanta dedizione nella ricerca della storia delle canne dolci, l’amico Massimo Zelli pescatore e tester di canne da pesca per conto del marchio Daiwa, nonchè ingegnere in materiali compositi, a cui tempo fa mandai la foto di una di queste canne, in mio possesso, mi rispose con ironia: “ I tempi dei maniscalchi” penso fosse una battuta, ma può anche essere un’opinione tecnicamente inattaccabile, ma dovuta anche a non aver mai pescato per anni con quegli oggetti vivi, cosa che io ho fatto; avendo posseduto e pescato come prima canna con una 3 mt. ad innesti e poi anche con una Arduino di 7 metri; perchè artigianato a parte quelle canne erano oggetti che provenivano dalla terra, oggetti che richiedevano nel tempo le cure di una cosa viva, nei confronti della quale oggi a me sorge spontaneo un affetto che va oltre la loro valenza tecnica, una cosa viva e anche alla portata delle tasche di tutti, tanto che mi piace ricordarle come l’uniche vere canne democratiche.
In genere alla fine di un lavoro di ricerca si nominano le fonti e gli articoli dai quali si è tratto le notizie , ma visto che quelle sono già nel testo; ci tengo a ripetere solo I nomi di quei Pescatori che in prima persona si sono sorbiti tutte le mie domande, e in molti casi anche la mia invasione di campo ripetuta.
ANDREA LONDI -1947-(Boss negozio Londi e figlio d’arte)
MASSIMO GIGLI -1946 -( Artista pescatore girovago)AMICO
ROBERTO PICCHIANTI -1935 ( Pescatore – Scrittore -Artista)
ROBERTO GENERALI – 1944 -( Agonista)
MARCO CAMPATELLI – 1957-(Figlio d’arte)
Vi saluto lasciandovi qualche foto delle canne dolci degli anni ‘50
A.Z.
Che bellissimo articolo!!! Mi ha fatto ricordare quando da bambino metà anni 60 possedevo due canne di canna dolce e una di bambù. Mi ricordo anche quando per negligenza (ero un bambino) bagnavo la canna e levare i pezzi diventava un dramma a causa dell’ingrossamento della canna dovuto all’umidità
Io, essendo qualche anno più giovane, ho iniziato con le cannette in fibra di vetro alle prese con i vaironi, ma qualche volta, a seguito di un “crack”, non mi sono fatto problemi a rimediare qualche cannuccia sul posto e farmi al volo una cannetta di emergenza.
I pescetti venivano via uguale; a loro non gliene è mai fregato nulla di come fosse fatta una canna.
Bellissimo articolo comunque.
Il Sig. Zaccaria dovrebbe essere dichiarato patrimonio dell’umanità.
Hai fatto un’opera da enciclopedia !!
Questo scritto ha un valore testimoniale enorme: sei riuscito nell’impresa di mettere “su carta” le esperienze di vita/lavoro artigianale che hanno fatto la storia della pesca con la canna dolce.
Divulgatore.
Grande opera, un lavoro sopraffino per estimatori. Definirei questo post con il titolo: “Lo Zen e l’arte della canna da pesca”. Sono di Empoli e questa storia della canna all’empolese che tu hai citato mi interessa particolarmente. Hai altre informazioni a riguardo?
Grazie per le informazioni e congratulazioni per l’eccellente argomento trattato. Voglio anche accentuare il fatto che canne toscane, ghiere di ottone o metallo, ed altre componenti per incollaggi e legature varie, menzionati nell’articolo, sono tutti materiali riciclabili, reperibili localmente, e comunque non inquinanti e tutti a buon mercato. Giusto riportare alla luce la storia di un artigianato che andrebbe fatto rivivere. La canna toscana mi ha sempre affascinato per la sua semplicità, eleganza e maneggevolezza. Cercavo di comprarne una anni fa. Andai dalla buon’anima del Mannucci in via Aretina che, con lo charme del bottegaio di periferia, mi disse: “icche l’intenderebbe fare con una hanna di hanna? Quella l’è roba che un’ vo più nessuno. Ma un’ l’ha visto come le ciondolano.” Poverino. Morì poco dopo. E il negozio in mano alla sua figliuola chiuse quasi subito. Con l’Arno trasformato da decenni in una fogna, la pesca di oggi a ecoscandagli elettronici, canne telescopiche di carbonio, e armature da fantascienza, (tutto made in China), è tanto triste quanto lo sono le specie invasive che rimangono attaccate al l’amo. Speriamo che cambi.
Articolo bello, utilissimo e interessante.
Prossimamente mi cimenterò nella costruzione di una canna di questo tipo o forse in bambù. Non credo che sarà un lavoro facile, ma sicuramente:appassionante!
le costruivo da adolescente ,anni 65/70,in modo rudimentale sicuramente ma funzionavano bene,alla cima applicavo un frustino fatto con setole x cucire scarpe,che ricordi,grazie x questo immenso articolo.
Un vero piacere scoprire di non essere troppo soli ad apprezzare cose che, apparentemente, non interessano più a nessuno. I prodotti artigianali eseguiti con i materiali semplici hanno un fascino intramontabile tutto loro ed ogni oggetto è un prezioso e bellissimo documento. Io ho sempre amato le canne di canna anche quand’ero ragazzino e avevo pure le mie canne di fibra.
Sono tuttora in possesso di alcune vecchie canne, di canna dolce e di bambù, fra le quali una bolognese classica con gli anelli e una per la pesca alla valsesiana, con impugnatura di sughero e cimino di bambù alloggiato all’interno del calcio, costruita da A. Fusi e C. a Milano.